Salbertrand, 28.10.2007Stupore,orgoglio e soddisfazione: tre sensazioni che provo a distanza di qualche giorno dalla pedalata affrontata domenica 28 ottobre in quel di Salbertrand.
Stupore: non avrei mai pensato di poter affrontare uno sforzo fisco di questo genere. Tre ore di pedalata in salita con partenza da Salbertrand a 1032 metri di altitudine, per arrivare sul piazzale sopra Monfol a 1666 metri, proseguendo per la frazione Montagne Seu dove finalmente la vetta è stata raggiunta e dalla quale parte il tanto atteso sentiero numero 2, che dopo i primi due tornanti si congiunge al sentiero numero 1, che ci ha riportati a Salbertrand.
Orgoglio: anche se con stenti, fatica e crisi “isteriche” sono orgogliosa di essere riuscita a farmi scattare una foto accanto al cartello con l’altitudine della vetta.
Soddisfazione: è notevole per aver percorso parecchi km in salita ed essere riuscita poi ad affrontare la discesa del ritorno a valle.
Domenica soleggiata con aria frizzantina, l’ideale per una bella pedalata all’aria aperta in mezzo alla natura. Il paesaggio è affascinante: cielo azzurro; terreno ricoperto dagli aghi dei pini, che rendono ovattato qualsiasi rumore e il silenzio ci circonda. Silenzio interrotto solo dal respiro un po’ affannato e affaticato e da qualche scambio di battute.
Versante della montagna in abito rosso e giallo, illuminato dai forti raggi del sole che penetrano con prepotenza tra le chiome della vegetazione. Qualche angolo nascosto, più freddo e buio, è invece rischiarato dalla neve scesa nei giorni precedenti.
Tutte le premesse sono buone per una giornata di sano sport.
La salita non è un muro, ma tornante dopo tornante si sale lievemente. Il passaggio da zone riscaldate dal sole a zone fresche in ombra, rendono migliore il clima per la pedalata. Ma ecco che dopo più di due ore di scalata lo sconforto si impadronisce di me e la stanchezza attacca testa e corpo.
Arrivati sul pianoro di Monfol crollo a terra e scoppio: la cima non arriva mai e non ho la più pallida idea di quanto manchi ancora all’arrivo, questa mancanza di informazioni mi massacra psicologicamente.
Missi con pazienza mi incoraggia e mi conforta (più o meno visto che mancano ancora più di 20 minuti all’arrivo) dandomi la carica per l’ultimo strappo.
Il rush finale è duro, ma ecco finalmente il cartello in legno con l’altitudine e la descrizione del punto in cui ci troviamo. Poco distante la palina con l’indicazione del sentiero numero 2, che pochi metri più avanti ci permette di arrivare al “nostro” (ormai dopo tutta la fatica fatta lo considero mio) sentiero numero 1.
Ma ecco il secondo momento di panico: la stanchezza accumulata mi permetterà di affrontare la discesa? I miei muscoli riusciranno a controllare la bici e la testa riuscirà a concentrarsi per non farmi commettere errori che porterebbero a cadute rovinose?
Ce l’ho fatta! Il terreno, caratterizzato da rami secchi, pietre e foglie umidicce, era buono, anche se nei tratti più in pendenza la ruota posteriore perdeva aderenza slittando lateralmente e richiedendomi uno sforzo maggiore per mantenere l’equilibrio e non cadere.
Curva dopo curva si intravedeva come un miraggio il pianoro dove il Jimny ci stava aspettando da più di quattro ore.
Che gioia nel rivederlo, nel caricare le bici e lasciarsi andare ad uno stato di piena rilassatezza.
Tutto questo è stato possibile grazie a Missi, che armato di tanta pazienza ha sopportato le mie lagne e i miei musi per tutta la durata del tragitto.
Sicuramente lui avrebbe raccontato in modo differente questa giornata, l’avrebbe raccontata dal punto di vista di una persona esperta che va in bici da una vita. Il mio racconto, invece, è quello di una persona che si è avvicinata a questo mezzo di trasporto da pochi mesi, quindi con parecchi dubbi e paure, ma con la testa dura da non mollare.
Stefania Bechis